È stato presentato ieri a Milano in un evento collaterale al Salone del Mobile Lapsus, un artwork a cura del designer Fabio Novembre: si tratta di una chaise longue invasa dal freudiano tappeto persiano sottostante, su cui campeggiano come ornamenti le sagome di alcune macchie di Rorschach.

L’installazione, oltre a mettere insieme design e psicoanalisi come aveva già fatto Le Corbusier nel 1928, accosta due tecniche e modelli psicologici che se non sono fratelli sono almeno cugini. Lo psichiatra Hermann Rorschach lavorò infatti nella celebre clinica di Zurigo Burgolzli, legata al nome dello psicoanalista eretico Jung, e si avvicinò ai circoli psicoanalitici di inizio ‘900 da cui trasse ispirazione per la creazione del suo celebre reattivo; nel corso dei decenni e con lo stabilizzarsi della tecnica grazie ai maestri Rorschach di prima generazione (Hermann morì infatti neanche quarantenne per una setticemia) la psicoanalisi ha spesso utilizzato la tecnica, di cui riconosceva la capacità prognostica di indicare la trattabilità o la possibile evoluzione benigna delle patologie psichiche. E la tecnica Rorschach si è notevolmente arricchita grazie alla lettura simbolica delle macchie, fino agli eccessi della scuola francese di Chabert che ne ha disconosciuto i fondamentali aspetti formali e statistici. Lapsus è stato presentato nel corso di un ironico “psychoanalytic cocktail”, a richiamare la suggestione che Freud e seguaci ancora esercitano sulla cultura pop e sulla classe borghese contemporanea attingendo anche all’inesorabile potere evocativo delle macchie; allo scopo, secondo l’autore, di “interpretare il destino, tessuto attraverso la trama femminile e l’ordito maschile”.
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L’opera, al di là del suo valore artistico, riapre il dibattito sulla diffusione delle macchie di Rorschach: è noto infatti che le tavole non sono più protette da copyright, malgrado gli sforzi della Società Internazionale Rorschach di riacquisirli; ed è altrettanto noto come l’esposizione alle tavole alteri le risposte al test quando somministrato, facendo venir meno ad esempio quelle manifestazioni di choc così necessarie alla comprensione dei nodi inconsci del paziente-cliente.

Così, mentre Novembre ha il buon gusto (o la necessità) di sfumare i contorni mantenendo l’allusione alle tavole senza far danni, ha fatto discutere la recente iniziativa del quotidiano Repubblica che ha accompagnato una serie di inserti editoriali di tema psicologico con altrettante macchie di Rorschach, stavolta ben riconoscibili e con colori alterati. E in rete con un po’ di pazienza si possono rintracciare tutte le macchie: addirittura Wikipedia ne rivela la prima dietro la foglia di fico del disclaimer “secondo la letteratura scientifica di settore vedere le tavole prima di aver effettuato il test può modificarne il risultato”. Salvatore Parisi, direttore della celebre Scuola Romana Rorschach nonché uno dei più importanti rorschachisti a livello internazionale, così commenta: “Purtroppo non si può far nulla, se non richiamare l’opinione pubblica alla responsabilità. Ma è difficile quando sono proprio gli addetti ai lavori che non se ne curano. Cito su tutti un episodio: nel 1980 John Exner, padre dell’omonimo metodo, tuttora il più diffuso negli Stati Uniti, e allora presidente della Società Internazionale, in occasione del dodicesimo congresso mondiale si fece ritrarre dal Washington Post in una foto incorniciata dalle tavole di Rorschach”.
Non tutti sanno che per la sua complessità il Rorschach necessita di una tecnica di somministrazione minuziosa e di un training pluriennale, allo scopo di annullare le possibili distorsioni soggettive dell’esaminatore; purtroppo questi aspetti sono misconosciuti addirittura ad alcuni psicologi. Paolo Capri, esperto di Rorschach nel contesto giudiziario, ricorderà senz’altro un episodio durante un affollato convegno in psicologia forense a Bari: mentre raccontava degli errori commessi nella somministrazione del test ad Anna Maria Franzoni dopo il delitto di Cogne fu letteralmente aggredito da una collega – si sarebbe detto una pescivendola – che enigmaticamente schiamazzò: “Basta col Rorschach! È il tempo che guarisce tutto!”. Una soluzione? Introdurre l’insegnamento del Rorschach all’università come avviene in altri paesi. L’auspicio è quello della crescita di una cultura delle macchie, e non del loro consumo.
Nicola Boccola – 13 aprile 2013
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Ai miei tempi il Rorschach si studiava all’Università… sembra tanto lontano, ma giuro che non è vero! Ho avuto una professoressa di eccellenza, la Passi Tognazzo, ed è probabile che sia stata fortunata.
Riflettendo sull’interessante articolo di Nicola Boccola, ho pensato che se da un lato è triste vedere come gli spazi professionali non vengano tutelati, dall’altro credo che mettere in pubblico la psicologia e i suoi strumenti possa aiutarci a uscire dalla nicchia “non ecologica” in cui siamo rilegati. D’ogni modo, per il divano: mi aspettavo fosse molto più bello! e avevo anche incominciato a pensare “lo voglio!!!” ma così, con quel tappetino sopra… mi tengo il mio
Complimenti per l’oculatezza e l’arguzia, nonostante la sintesi che richiede questa modalità di intervenire nelle notizie. Pur non essendo io un cultore della meteria, sai che ho apprezzato fin dagli inizi la tua capacità di somministrare ed elaborare lo strumento testologico